Pilù era una palletta di piume alta non più di 15 cm, con
gli occhi come perle nere e un pettorale rosso che spiccava
sul piumaggio bruno e sul ventre chiaro. Quando l'aveva visto per la prima volta all'inizio dell'estate era ancora piccolo e spaurito e il piumaggio ancora di un colore indistinto che poco lasciava presagire alla bellezza che di lì a poco sarebbe sbocciata. Aveva cominciato a posarsi poco dopo l'alba
sul davanzale della finestra cameretta di Enrico, cinguettando e saltellando,
da principio con fare guardingo, muovendosi con piccoli scatti del capo come per tenersi pronto a volare via al
minimo segnale di pericolo. Poi, mattina
dopo mattina, quando aveva cominciato a mettergli sul davanzale
briciole di pane e biscotti, il piccolo pettirosso aveva cominciato ad indugiare a lungo sul davanzale, finché era arrivato a
spiluccare le briciole dalle sue mani senza paura. Era diventato un
appuntamento fisso, appena sveglio Enrico sorseggiava la sua tazza di latte alla
finestra dividendo i biscotti con il suo amico pettirosso. Gli aveva anche dato
un nome, ma siccome non sapeva se era maschio o femmina, l’aveva chiamato Pilù perché
gli pareva che potesse stare bene in entrambi i casi. Enrico se ne stava li in
pace alla finestra a giocare con Pilù finché sua madre non lo riportava alla
realtà urlandogli che ora di aiutare a sbrigare le faccende, e il pettirosso,
quasi lo capisse, volava via, non prima di essersi voltato diverse volte come a salutare ed
essersi esibito in una serie di giravolte e volteggi leggeri nell’aria accompagnati da
quell’inconfondibile allegro gorgheggiare. Poi una sera dopo il tramonto approfittando
della finestra aperta Pilù era entrato silenziosamente nella cameretta di Enrico e si
era posato suo comodino, e al risveglio l’aveva trovato lì a cinguettargli un
allegro buongiorno. Da allora erano diventati inseparabili, il pettirosso si posava sulla
sua spalla o gli svolazzava intorno tutto il giorno, mentre Enrico giocava nei
campi con i suoi fratelli o a nascondino nella cascina. A volte dopo aver corso
per ore nei campi, sempre con Pilù a svolazzargli dietro, si sdraiava sull’erba e giocava a
dare una forma alle nuvole e il pettirosso stava lì poggiato sul suo petto a
guardare il cielo assieme a lui. Enrico aveva 7 anni, grandi occhi color del mare e boccoli biondi, era un bambino
introverso, un po serio, che aveva dovuto crescere in fretta. Non si era mai sentito davvero desiderato e per quanto la
sua famiglia gli volesse bene si era sempre sentito di troppo, come se
non ci fosse lo spazio giusto per lui in quel quadretto del Mulino Bianco. E
forse tanto idilliaco non lo era quel quadretto, per quello appena poteva scappava
fuori casa con Pilù, lui sembrava capire i suoi stati d’animo e stare in
silenzio o cinguettare al momento giusto, non lo lasciava mai solo, dormiva sul
suo comodino, e trascorrevano insieme le giornate dividendo cibo, giochi e
confidenze come vecchi amici. L’estate stava passando e per la prima volta
Enrico non si sentiva solo, nonostante i suoi genitori e i fratelli lo
prendessero in giro per quella strana amicizia, a lui non importava. Certo i suoi fratelli non smettevano di fargli
scherzi e dispetti, a volte crudeli, come quando avevano chiuso Pilù dentro l’armadio
ed Enrico l’aveva liberato appena in tempo trovandolo quasi esamine a forza di sbattere le ali disperatamente per
uscirne. Quella notte era rimasto sveglio a vegliare su di lui, sfiorandolo
dolcemente e promettendogli che sarebbero stati amici per sempre. Era quasi
finito settembre, il cielo si era fatto nuvoloso e l’aria fresca, il ritorno sui banchi di scuola il primo ottobre era imminente. Il fratello maggiore di Enrico aveva portato a
casa un grosso gatto. Era il vecchio gatto tigrato che di solito viveva nella
stalla o in cortile, cacciando topi e lucertole, ma quando le notti avevano
raffrescato avevano deciso di farlo dormire in casa. Una mattina Enrico era seduto sul pavimento
con Pilù tra le mani che sbocconcellava avidamente briciole di torta, e il
gatto si era avvicinato silenziosamente, se l’era trovato davanti e nella sua
ingenuità non aveva pensato al pericolo che rappresentava per il suo piccolo
amico, anzi aveva sorriso al felino e aveva teso le mani come a volerlo rendere
partecipe di quel momento gioioso. Era stato un attimo, non se n’era neppure reso
conto, con uno scatto improvviso il gatto aveva afferrato Pilù per la testa ed
era scappato via lasciando dietro di se una scia di piccole piume svolazzanti. Enrico
l’aveva inseguito ma quando l’aveva raggiunto e il gatto trionfante aveva finalmente
lasciato andare la preda, il corpo di Pilù giaceva ormai senza vita. Enrico rimase a guardarlo, attonito, con le lacrime agli occhi. Sua madre raccolse l'uccellino imprecando e lo portò via, forse lo seppelì ma più facilmente lo buttò assieme ai rifiuti. Enrico rimase inutilmente seduto alla finestra sapendo che il suo amico non sarebbe tornato e in quel momento sentì che la sua infanzia era finita e che se non voleva soffrire più doveva smetterla di affezionarsi, perchè niente e nessuno dura per sempre e alla fine siamo destinati ad essere soli. Avrebbe voluto inseguire il gatto e ucciderlo ma non lo fece, perchè in qualche modo sentiva che aveva seguito la sua natura di cacciatore e la natura non si può cambiare.
I racconti de
La bambina col cappotto azzurro-cielo
La bambina col cappotto azzurro- cielo@copyright
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Ciao, posso chiederti se il racconto è tuo? Mi piacerebbe poterlo condividere citando la fonte
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