Apro lentamente gli occhi e mi
guardo intorno. C’è un buio totale nella stanza, nessuna luce filtra dalle
finestre. Impiego un po’ a capire dove
mi trovo. L’unico rumore è il gocciolio monotono del liquido nella flebo mentre
scende verso il mio braccio.
Provo a sgranchirmi le gambe ma non ci riesco, al di sotto del mio
bacino non sento muoversi niente. Alzo la testa quel poco che basta a
consentirmi di guardare il resto del mio corpo, intravedo la forma delle gambe
sotto il lenzuolo e questo mi tranquillizza.
Plop, plop, plop. La flebo continua a
gocciolare lentamente. Richiudo gli occhi… mi sento così
stanca…Marco dove sei?
Eccolo, ora lo vedo. Un ragazzo sta salendo, supera spedito gli ultimi metri di roccia con movimenti sciolti e potenti. L’aria calda dell’estate aleggia in un alone luminescente, giù a valle si suda e anche in quota le gambe si stancano in fretta. Sono salita con alcuni amici sulla cima, dal versante panoramico che sale dal rifugio in quattro ore di cammino. Me ne sto appoggiata sulle pietre a gustarmi la visione del fondovalle, quando dalla parete nord, la più difficile, vedo arrivare un ragazzo abbronzato che avanza con padronanza, agile e leggero come un animale. Con un balzo supera l’ultimo spuntone di roccia, si siede poco lontano da me. Gli porgo la borraccia e lui beve avidamente. Poi mi sorride. Si chiama Marco. Rimaniamo l’uno accanto all'altro ad ascoltare il vento, in silenzio.
Quel giorno la mia vita e quella di Marco diventano una sola. Siamo come una cordata: avanziamo uniti, e se cade uno, cadiamo entrambi. Devo imparare a convivere con la paura. Ho paura ogni volta che lo vedo partire con lo zaino in spalla, ho paura quando lo aspetto nella tenda a fondovalle e lo vedo salire sulle rocce e diventare sempre più piccolo, perdersi tra le nuvole, e ridiscendere dopo ore interminabili.
Non ero esperta come lui, erano pochi anni che mi arrampicavo e sempre su vie facili, ma ero appassionata e imparavo in fretta. Marco ridendo diceva che ero nata al mare ma ero montanara dentro.All'inizio rimanevo giù a guardarlo, seguendo i suoi movimenti metro per metro.
A volte mi diceva che era come se avesse quattro occhi,
quattro mani e quattro piedi, perché anche se rimanevo in basso,
mi poteva sentire salire su, con lui fino alla cima a dargli forza in ogni
momento. Ma col tempo aspettarlo non mi bastava più, avevo cominciato a seguirlo nelle pareti meno impegnative. Cercavo di sconfiggere le mie paure, mi lasciavo guidare da lui, mi fidavo completamente. Sulla roccia eravamo una persona sola, ci muovevamo e respiravamo all'unisono, qualsiasi cosa accadesse eravamo assieme "cado io, cadi tu".. Anche quel giorno gli avevo chiesto di seguirlo, anche se la parete era più difficile del solito per me, per lui era un'allenamento normale.
Eccolo, ora lo vedo. Un ragazzo sta salendo, supera spedito gli ultimi metri di roccia con movimenti sciolti e potenti. L’aria calda dell’estate aleggia in un alone luminescente, giù a valle si suda e anche in quota le gambe si stancano in fretta. Sono salita con alcuni amici sulla cima, dal versante panoramico che sale dal rifugio in quattro ore di cammino. Me ne sto appoggiata sulle pietre a gustarmi la visione del fondovalle, quando dalla parete nord, la più difficile, vedo arrivare un ragazzo abbronzato che avanza con padronanza, agile e leggero come un animale. Con un balzo supera l’ultimo spuntone di roccia, si siede poco lontano da me. Gli porgo la borraccia e lui beve avidamente. Poi mi sorride. Si chiama Marco. Rimaniamo l’uno accanto all'altro ad ascoltare il vento, in silenzio.
Quel giorno la mia vita e quella di Marco diventano una sola. Siamo come una cordata: avanziamo uniti, e se cade uno, cadiamo entrambi. Devo imparare a convivere con la paura. Ho paura ogni volta che lo vedo partire con lo zaino in spalla, ho paura quando lo aspetto nella tenda a fondovalle e lo vedo salire sulle rocce e diventare sempre più piccolo, perdersi tra le nuvole, e ridiscendere dopo ore interminabili.
Quando aveva fatto dell’alpinismo
il suo mestiere, Marco aveva concluso un patto con se stesso: era pronto ad accettare
tutto quello che sarebbe potuto succedere. Qualsiasi cosa. La vita di uno scalatore è pericolosa, inutile negarlo. E per lui,
questo implicava che non ci potevano essere
legami, famiglia, figli, nessuno ad aspettarlo, nessuno che potesse soffrire della sua scelta. Lassù, i sentimenti potevano essere una debolezza. E le debolezze non sono ammesse.
Nonostante questa sua decisione, non ha potuto impedirmi di entrare nella sua vita. E' stata la cosa più naturale del mondo, incontrarci, amarci, decidere di stare assieme. Io non gli avrei mai chiesto di rinunciare all'alpinismo, sarebbe stato come chiedergli di rinunciare ad un braccio o una gamba. Gli ho semplicemente chiesto di fare del mio meglio per ritornare da me ogni volta.
Nonostante questa sua decisione, non ha potuto impedirmi di entrare nella sua vita. E' stata la cosa più naturale del mondo, incontrarci, amarci, decidere di stare assieme. Io non gli avrei mai chiesto di rinunciare all'alpinismo, sarebbe stato come chiedergli di rinunciare ad un braccio o una gamba. Gli ho semplicemente chiesto di fare del mio meglio per ritornare da me ogni volta.
Ce ne stavamo
distesi tra le mandrie al pascolo. Da lì il cielo sembrava altissimo e tutto
azzurro sopra di noi. La montagna scintillava nella sua corazza di ghiaccio.
L’eco delle pietre che rotolavano rimbalzava da uno strapiombo all'altro e ci giungeva alle orecchie il sibilo lontano delle slavine. Quel giorno ci siamo baciati a lungo e abbiamo fatto l’amore sull'erba
vellutata di giugno, mentre il ghiacciaio bruciava in un incendio di fuoco al
tramonto. Mentre lui mi fissava con quei grandi occhi azzurri che sapevano aprirsi
varchi dirompenti dentro me, gli ho sussurrato: “Tu va oltre le nuvole, vai lassù
e tocca il cielo con le tue mani, parla con il vento, gioca con le aquile. Ma
poi guarda giù a valle, io sarò là ad
aspettarti. Prometti che farai del tuo meglio per tornare sempre da me…” E Marco aveva promesso.
Illustrazione: Samy Charnine |
Tutti, da bambini, siamo saliti più in alto di quanto non osavamo nemmeno sperare. Forse è solo quella sensazione che inseguiamo. Toccare il cielo, esserne parte, sentirsi liberi. Ogni ascesa è un
viaggio, un’esperienza unica in cui l’emozione si fa intensa, profonda
imprigionando l’animo fin nell'intimo e a nulla vale riandare alle esperienze
passate. E’ come se ogni volta fosse la prima volta, in una sorta d’eterna
riscoperta di qualcosa di già noto, che
però mantiene il sapore fresco e intatto della novità. Certo se si vuole
ottenere molto, bisogna essere disposti a pagare molto. Soltanto così è
possibile entrare dentro le cose, oltre l’apparenza, fino a viverle, a sentirle
come proprie in un’ osmosi che non ha confini, persi in una dimensione dove
l’essere umano si annulla pur mantenendo un fortissimo senso della propria
identità. Lassù non si può mentire. Sì è
inevitabilmente a faccia a faccia con sé stessi. Soli.
Sono passate due
settimane dal mio primo risveglio in quello stesso letto d’ospedale. Ben poco è
successo. C’è ancora il plop, plop della flebo a scandire il tempo
interminabile tra quei quattro muri. Le mie gambe cominciano a riprendersi, fanno male e formicolano fino a farmi impazzire, ma so che è un buon segno. Dovrà passare ancora
tempo prima che possa camminare e chissà quanto prima che possa tornare a
scalare ma ce la farò. Voglio tornare al più presto su quella montagna dove Marco mi sta aspettando.
Quel giornostava andando tutto nel migliore dei modi, eravamo quasi in cima, Marco aveva alzato gli occhi e guardato quella vetta. Conoscevo quello sguardo, era una sfida con la montagna. Voleva raggiungere la cima da una via nuova, cercava un taglio, una deviazione. Imprudenza, incoscienza, troppa sicurezza di se, o troppo amore per la montagna, troppa voglia di esserne parte. Un attimo, il tempo di spostare il peso da una mano all'altra, lo spuntone di roccia su cui aveva fatto presa si staccò. Improvvisamente. La montagna aveva deciso per noi.
Cado io, cadi tu. La roccia aveva trascinato Marco per trenta metri. Io ero ridotta male ma viva, lui si era sganciato da me un attimo prima e così non mi aveva trascinato con se, la mia caduta si era fermata dopo pochi metri. Non ricordo nulla, questo è quello che mi hanno raccontato. Tante volte avevo temuto che sarebbe successo ma non avevo previsto di risvegliarmi senza di lui. La montagna me l'aveva portato via. Avrei dovuto odiarla, invece non vedevo l'ora di tornare lassù. Per ritrovarlo. Sapevo che lui ora apparteneva alla montagna, per sempre. Sapevo che se c'era un senso alla sua vita e alla sua morte, era che Marco era morto facendo ciò che più amava. Odiare la montagna sarebbe stato come odiare lui. Sapevo che l'avrei ritrovato solo lassù, nei silenzi del vento. Mi avrebbe abbracciato e e saremmo stati di nuovo assieme.
Dedicato ad A. che ha scalato le nuvole fino a toccare il cielo
Mi manchi.
La bambina col cappotto azzurro-cielo
La bambina col cappotto azzurro- cielo@copyright
Cado io, cadi tu. La roccia aveva trascinato Marco per trenta metri. Io ero ridotta male ma viva, lui si era sganciato da me un attimo prima e così non mi aveva trascinato con se, la mia caduta si era fermata dopo pochi metri. Non ricordo nulla, questo è quello che mi hanno raccontato. Tante volte avevo temuto che sarebbe successo ma non avevo previsto di risvegliarmi senza di lui. La montagna me l'aveva portato via. Avrei dovuto odiarla, invece non vedevo l'ora di tornare lassù. Per ritrovarlo. Sapevo che lui ora apparteneva alla montagna, per sempre. Sapevo che se c'era un senso alla sua vita e alla sua morte, era che Marco era morto facendo ciò che più amava. Odiare la montagna sarebbe stato come odiare lui. Sapevo che l'avrei ritrovato solo lassù, nei silenzi del vento. Mi avrebbe abbracciato e e saremmo stati di nuovo assieme.
Dedicato ad A. che ha scalato le nuvole fino a toccare il cielo
Mi manchi.
La bambina col cappotto azzurro-cielo
La bambina col cappotto azzurro- cielo@copyright
Riesci sempre a stupirmi ed emozionarmi con la tua scrittura, davvero bello questo racconto che credo vista la dedica sia frutto di esperienza di vita.
RispondiEliminaA mio modesto parere andare in montagna è pericoloso, qualsiasi cosa si faccia o quasi. La paura trà le persone sembra non esserci più, invece un pò di sana paura ti aiuterebbe a ragionare quali pericoli potresti correre, e, se fosse il caso anche di rinunciare alla gita oppure farla magari ridimensionandola. L’alpinismo epico, delle conquiste è passato, non dobbiamo far vedere più nulla (almeno io). In questi anni con internet, con la televisione con le riviste ci fanno vedere persone che fanno qualsiasi cosa, in qualsiasi momento dell’anno, eliski, freeride, ski alp già a novembre etc è tutta una moda e un movimento commerciale e basta! Speriamo che si ritorni ad andare in montagna non di tutta fretta ma con più calma, facendo sci alpinismo quando la neve sarà trasformata e assestata come si faceva una volta.
RispondiEliminaAndare in montagna è favoloso, tornare a casa di più.
Ciao
Andare in montagna è una delle cose più belle, la montagna da grandi emozioni senza chiedere niente in cambio a nessuno, però, quando chiede qualcosa, allora chiede la cosa più importante che uno ha, la propria vita.
Elimina
EliminaMetto un commento riguardo questo post anche se potrebbe sembrare in palese contraddizione con il pensiero che sto per esprimere.
Reputo sempre difficile ed a volte inopportuno commentare le morti altrui.
Solo chi era lì poteva sapere cosa in quel momento pensava, quale situazione si era trovato ad affrontare, ecc.
Questo è il motivo per il quale posso apparire incoerente.
Tuttavia mi sento di scrivere in qualità di frequentatore della montagna e non come giudice.
Al giorno d’oggi tutto sembra più semplice, più raggiungibile e più “da raggiungere”.
Vediamo i fuoriclasse veri che non dicono niente delle loro imprese, vediamo invece quelli che le pubblicizzano mediaticamente, vediamo anche gente più o meno “forte ed esperta” che va in montagna per passione.
Vediamo infine chi sale sui monti per pubblicare un’impresa su internet.
A prescindere dal fatto che, se è vera passione per la Montagna, non dovrebbe esserci insita in se stessi la voglia di farsi vedere, in ogni caso la Natura non guarda in faccia a nessuno.
La Natura fa il suo corso, segue i suoi cicli e non deve essere Lei a valutare gli uomini.
Dobbiamo essere noi a capire se siamo adatti in un certo momento a fare una determinata cosa.
Dobbiamo essere noi a prendere coscienza reale (non solo scritta nei forum e sugli epitaffi) dei nostri limiti e delle nostre carenze, così come delle nostre possibilità.
L’errore è umano e tutti lo fanno.
A volte ti va bene, a volte no.
Ma la colpa di base è sempre nostra: non della sfortuna e nemmeno del destino.
Il Disegno Divino penso entri in gioco solo nel momento in cui l’accadimento è qualcosa di fronte al quale l’uomo è impotente (terremoti, eruzioni, crolli di pilastri interi di montagne, ecc.).
In casi come quelli citati dall’articolo il fato non c’entra niente.
Mi scuso per il mio essere stato forse troppo diretto.
Non sono cinico e rispetto il dolore di tutti, ma penso che certe frasi quali “era il suo momento”, “era esperto ed appassionato”, a volte sono semplici paraventi per non voler ammettere a se stessi la cruda verità.
Io per primo ho sbagliato in molti casi ed ho cercato di imparare il più possibile.
Ciò non significa che sia esente da qualsiasi rischio, anzi ho sempre paura di sopravvalutarmi e di cadere in errore.
Chiedo solo a Chi è più in alto di noi (Dio, Buddha, Allah o Chiunque in cui credete) di darmi sempre l’umiltà di ascoltare quella vocina che parecchie volte mi ha detto “torna a casa”.
Detto questo, non so se sia una tua esperienza personale (mi auguro di no) o solo un racconto inventato, ma comunque sia è molto ben scritto, diretto, toccante, come sempre arrivi dritta all'animo di chi legge con naturalezza, è sempre un piacere leggerti.
Ciao cara buon we
Ma quante parole a vanvera avrai detto ???
EliminaNn ti scusare per essere stato troppo diretto ma fallo perchè sei completamente fuori tema ed hai vomitato un treno di cazzate inimmaginabili ed evita frasi a sensazione tipo quella della "vocina" di Chi è più in alto sicuramente di te.
RispondiEliminaDa fidanzata di un alpinista so cosa significa attenere, attendere………
non c’ è un modo giusto e meno per andare in montagna, non c’è una velocità idonea, c’è il nostro essere e la ricerca di qualcosa che va oltre le prassi corrette , per la fretta, per la voglia di andare lo stesso, per il cronometro, ecc ecc
un abbraccio
Nella vita di “sicuro” non esiste niente ,non sono sicure le scale di casa ,non lo è attraversare la strada e nemmeno andare in macchina…il mare è sicuro per caso ?? la sicurezza è inversamente proporzionale al livello nel quale si affrontano le cose, e questo lo decide la persona stessa. tutte le disgrazie in montagna, e non solo in montagna, sono un mix di di imprudenza e sfortuna, e chi si assunge a critico,sia in positivo o in negativo ,lo fa solo perchè in montagna ci è andato solo per cercare margherite. Lo sci Alpinismo è uno sport tra i più pericolosi ,io lo faccio da 30 anni e di rischi ne ho passati…eccome…come li hanno passati tutti quelli che lo praticano intensamente ,come li passano chi fa Sub, chi arrampica , chi fa Paracadutismo ,chi fa nautica…ecc. !! Ovvio che,essendo lo sci alpinismo o tutto quello collegato al fuoripista ,praticato da una grande quantità di persone,gli incidenti sono più frequenti. Ma avete controllato ancora quanti ciclisti muoiono travolti dalle Auto ???quindi non cerchiamo sempre il “ma ne valeva la pena? ” perchè altrimenti la risposta è una sola…”La mattina se stai a dormire che non ti succede niente”…..ops…anche questo per la salute non va bene !!!…ma cosa si deve fare allora :D ????…io continuo nelle mie passioni !!!
RispondiEliminaNon so se è autobiografica ma lo sembra. Ho vissuto la tua avventura, grazie :-)
RispondiEliminaCerto, si può stare a casa ..., si può evitare di salire su un albero, di correre a perdifiato con la bici o la moto, di ... sfidare la montagna ...
RispondiEliminaMa si puo anche ... v i v e r e , e vivendo si può anche morire.
Bel racconto. C'è la distanza e il tono giusto per ricordare un avvenimento tragico con misura ed equilibrio.
RispondiEliminaGrazie Francesca, è vero bisogna far passare un po di tempo per guardarsi indietro senza lasciarsi sopraffare dalle emozioni...a volte il tempo aiuta e scrivere è sempre una buona terapia...
RispondiEliminaSì. Scrivere aiuta. Anche a elaborare il dolore. Quando si riesce a farlo fluire nella parola scritta la mancanza diventa meno lancinante, rimane un vuoto ma lo strappo inizia a rimarginarsi. E' un dono.
EliminaI migliori di sempre
RispondiEliminaho letto il tuo racconto con curiosità e l'ho terminato con le lacrime agli occhi...è spettacolare.
RispondiEliminaE' un piacere leggerti!
RispondiElimina